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Trasformiamo un abito in un pezzo di futuro

Il 24 Aprile del 2013 il Rana Plaza un edificio di otto piani che ospitava alcune fabbriche di abbigliamento, una banca e numerosi altri negozi, a Savar, distretto della Grande Area di Dacca, Bangladesh crollò.

Ci vollero circa 20 giorni per completare le operazioni di soccorso.
Circa 2500 persone vennero estratte vive dalle macerie.
1134 persone (millecentotrentaquattro) morirono.

Nei giorni precedenti erano state notate delle crepe.
I negozi, le banche furono chiusi. Venne dato l’allarme.
I proprietari delle fabbriche tessili ignorarono l’invito e ordinarono ai lavoratori di tornare il giorno successivo, pena il licenziamento.
Il giorno dopo l’edificio crollò proprio nell’ora di punta, quando le fabbriche erano piene.
Ed il mondo scoprì cosa succedeva dentro il Rana Plaza.
Si produceva abbigliamento per molti brand famosi, amati, quei brand di cui tutti noi abbiamo o abbiamo avuto qualche capo nell’armadio.
Si scoprì che le persone lavoravano per pochi spiccioli in una struttura fatiscente.
Una struttura già dichiarata pericolante, ma in cui l’attività non si era mai fermata.

Divenne noto ciò che gli addetti ai lavori già sapevano: il regime di semi-schiavitù in cui si producono i vestiti che indossiamo.

Anni dopo in questo anniversario si celebra la Fashion Revolution Week per dire basta a questo sistema di sfruttamento nel mondo della moda. Per ricordare le migliaia di persone che ancora oggi vengono impiegate in questo settore in condizioni di semi schiavitù.

Tamsin Blanchart (giornalista che si occupa di fashion revolution ) scriveva tempo fa: “abbiamo disumanizzato le persone che confezionano i nostri vestiti perché abbiamo reso giusto che il loro lavoro valesse solo qualche centesimo in più che nulla” .
Disumanizzare. Rendere anonimi.

Senza volto, senza storia. La storia ci insegna che è un ottimo modo per giustificare i soprusi o almeno renderli accettabili. Far voltare dall’altra parte la moltitudine.

 

Noi cosa possiamo fare?
Nel nostro piccolo, vogliamo provare a dare una risposta.
Umanizzare. Dare nome, storia, volti a quello che indossiamo. Sapere da chi compriamo e perché.

Essere certi che chi produce lavora in un ambiente sano e viene retribuito per il proprio lavoro.

Conoscerne i nomi. Abbattere i passaggi di mano. Vedersi, parlarsi.
Incontrarsi.

Creare dei circoli virtuosi che d’incanto trasformano un abito in futuro, in lavoro, in prospettive.

Oggi lanciamo FMOriginal.

Avevamo anticipato il progetto via NL ed oggi, finalmente, abbiamo fra le nostre mani i primi pezzi.

Raccontiamo una storia di sorrisi, di accoglienza, di terre lontane e vicine. Di migranti che hanno aperto un’attività che valorizza la loro passione per il colore. Di richiedenti asilo che lavorano in una sartoria nelle campagne padane. Di un laboratorio che unisce grande tecnica alla pazienza di recuperare anche il più piccolo scarto di stoffa. Che crea invece di scartare.

Potete scegliere il vostro pezzo unico qui in negozio ( o sul sito) oppure decidere di farvelo fare su misura, perfetto per voi con una delle stoffe a disposizione.

Oggi una delle prime fortunate ad avere il suo capo FMOriginal mi ha scritto: “l’emozione di aspettarlo, di aprirlo e poi di indossare un capo realizzato su misura per me”.

Il suo sorriso si unisce al sorriso di chi produce, di chi confeziona.
Rendere l’abbigliamento un mezzo per unire, per creare bellezza e non dolore.
La nostra risposta in fondo è tutta qui.

Simona